Al-‘Uzza, Allat, Manat: ecco le divinità femminili panarabe, pre-islam

La Tre Gharaniq della tradizione pre-islamica: Al-Lāt, al-'Uzzā and Manāt
La Tre Gharaniq della tradizione pre-islamica: Al-Lāt, al-‘Uzzā and Manāt

Ecco le vere divinità arabe: Al-‘Uzza, Manāt e Allāt erano la triade delle divinità femminili panarabe pre-islamiche.

Al-‘Uzza

al-ʿUzza in arabo: الْعُزَّى‎, al-ʿUzzā’ – che letteralmente significa “la Potentissima” o “la Veneratissima” – è il nome di una divinità femminile araba higiazena di epoca preislamica.
https://it.wikipedia.org/wiki/Al-‘Uzza

AllatCon Manāt e Allāt faceva parte della triade femminile maggiormente venerata nell’Ḥijāz e, come tale, era oggetto di culto anche da parte dei Banū Quraysh di Mecca. Il suo nome compare già nelle epigrafi lihyanite, nabatee, thamudene e sud-arabiche, tanto da far pensare ad alcuni studiosi che ci si trovi di fronte al culto di una divinità paragonabile ad Afrodite[1].

Il fatto che i coreisciti avessero una loro propria divinità urbana, ospitata nel santuario della Kaʿba, non deve trarre in inganno in quanto Hubal era la divinità propria della tribù, mentre al-ʿUzzā era la divinità della stirpe dei Kināna cui, con ogni probabilità, facevano riferimento anche i Quraysh.

La divinità di al-ʿUzzā e quella di Allāt erano a Mecca chiamate al-Gharānīq: vocabolo mirante ad esaltarne l’eccezionale bellezza ma che letteralmente significava “gru, cicogne”, la cui particolare bellezza agli occhi dei coreisciti ci resterà con ogni probabilità del tutto ignota.
È ricordata in Cor. LIII:19-20

« Che ne pensate di al-Lāt e di al-ʿUzzā / e di Manāt, il terzo idolo? »
(Traduzione di Alessandro Bausani)
versetti che sarebbero stati inizialmente seguiti dai ben noti “Versetti satanici”, e ad essa, in base a una tradizione di Ibn al-Kalbī, Muḥammad, ancora bambino e inconsapevole del destino profetico che lo attendeva, avrebbe immolato con lo zio Abū Ṭālib – il cui fratello Abū Lahab si chiamava ʿAbd al-ʿUzzā, vale a dire “servo di al-ʿUzzā” – una “pecora dal manto grigiastro” ( shatan afrāʾ )[2].

Non aveva inizialmente un santuario ( bayt ) suo proprio ed era venerata sotto forma di sorgente (al-Buss) e di tre alberi appartenenti al genere delle acacie ( samūrāt ) nella valle di Ḥurāḍ, nell’oasi di Nakhla al-Shāmiyya (Il Palmeto siriano), distinto da Nakhla al-Yamaniyya (Il Palmeto yemenita), in cui, durante uno dei tanti fatti d’arme ( Ayyām Fijār ) s’erano rifugiati alcuni coreisciti che temevano per la propria vita e che, sfruttando la sacertà del posto, a tutti gli effetti ḥaram (interdetto, sacro), sfuggirono in quel modo a una fine pressoché certa.
Più tardi le fu costruito un santuario da parte di Ẓālim b. Asʿad, dei Banū Ghaṭafān, dotato di un bacino ( ghabghab ) in cui veniva raccolto il sangue delle vittime immolate in suo onore e alla sua custodia ( sidāna ) provvidero i B. Sulaym.

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Tornando a Mecca da Ṭāʾif dove aveva sondato la possibilità di trasferirsi per sfuggire l’atmosfera sempre più gravida di pericoli per lui stesso e il gruppo di fedeli musulmani che s’era formato, fu proprio a Nakhla che il profeta Muḥammad si fermò e, dopo aver invano chiesto protezione ( amān ) al clan materno dei B. Zuhra e al suo sayyid, al-Akhnas b. Sharīq, e poi a quello dei B. Āmir e al suo sayyid, Suhayl b. ʿAmr, riuscì infine a ottenere che al-Muʾṭim b. ʿAdī, sayyid dei B. Nawfal gli concedesse il suo amān.

Il luogo di Nakhla al-Shāmiyya fu distrutto dopo la conquista di Mecca del 631 d.C./8 dell’Egira, per ordine del profeta Muḥammad, da Khālid b. al-Walīd e le tre acacie furono tagliate in quell’occasione alla radice.

Allat

Numerose furono le varianti antiche della divinità panaraba femminile Allat: Dea degli inferi con il nome Allatu presso i Babilonesi, Allatum tra gli Accadi ed Elat per i fenici e i cartaginesi.
https://it.wikipedia.org/wiki/Allat
La così vasta distribuzione di questo nome dimostra la vastità del suo culto. C’è chi ha ipotizzato che questa dea, con la caratteristica di Luna infera, si sia spostata presso i Greci assumendo il nome di Ellotis, sì da far conoscere le feste di questa Dea – che avevano una forma orgiastica – come Ellotie, ma Erodoto (V secolo a.C.) non esita a considerare Allāt l’equivalente di Afrodite. Ellotia era anche un nome con cui si identifica Europa, principessa della Fenicia, trasformata da Zeus a Creta.

Nel periodo ellenico e romano troviamo che a livello panarabo la divinità femminile più venerata è Allāt (al-Lāt letteralmente significa “la dea”) che viene identifica come Atena e contemporaneamente accomunata con la Dea siriana Atargatis.
Nella città-stato di Palmira, in Siria, riscontriamo assomiglianza con la Dea Venere Urania e la Dea Artemide e si ricorda come il tempio della Dea a Palmira, venisse distrutto dai cristiani tra gli anni 378 e 386. Elemento tipico del culto della Dea sembra fosse il ricorso consistente all’incenso e che come animale sacro alla Dea fosse il leone, raffigurato in effetti nel tempio di Palmira. Un particolare importante di quest’ultima raffigurazione è il grande rilievo del leone, che tiene e protegge, tra le sue zampe un’antilope.

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Questo simbolo è stato interpretato come un rifiuto della Dea ad ogni sacrificio umano. Sempre su questo rilievo è stata rinvenuta la seguente iscrizione: “Allat benedice chi non versa sangue nel tempio”.

Nella Penisola araba il luogo principale di venerazione di Allāt o al-Lāt (in arabo: اللات‎) – che secondo Julius Wellhausen sarebbe stata considerata la madre di Hubal (e quindi suocera di Manāt) – era la città higiazena di Ṭāʾif, a sud di Mecca. Qui, venerata dai Banū Thaqīf che costituivano la popolazione della città, e custodita in un suo santuario dai Banū ʿAttāb ibn Mālik dei Thaqīf, era adorata sotto forma di un grande e squadrato masso bianco che, con la vittoria dell’Islam, fu destinato a fungere da gradino della moschea ivi fatta erigere da Muḥammad, una volta che il suo santuario fu su suo ordine incendiato da al-Mughīra ibn Shuʿba.

Il suo nome era usato nell’onomastica d’età araba preislamica e sono attestati termini quali Zayd Allāt o Taym Allāt.

Manat

Manāt (in arabo: ﻣﻨﻮة‎ o مناة) era una divinità araba preislamica che faceva parte della triade femminile venerata particolarmente – ma non solo – nella regione del Ḥijāz. I Nabatei infatti l’adoravano sotto il nome di Manawat o Manawatu e la identificavano con Nemesi considerandola, secondo Julius Wellhausen, la madre di Hubal.
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Secondo la testimonianza di Hishām b. al-Kalbī, Manāt era la divinità più antica delle triade, formata anche da Allāt e al-ʿUzzā ed è stato ipotizzato che essa potesse rappresentare il Destino, cui tutto soggiace.

Il luogo di culto della dea – raffigurata sotto forma di un masso di pietra bianca – era nella località di Quḍayḍ, presso Mushallal, a 15 chilometri circa da Yathrib (poi Medina), nella fascia costiera che corre lungo il Mar Rosso.

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Il suo santuario fu fatto distruggere dal profeta Muḥammad dopo la conquista di Mecca nel gennaio 630 d.C., equivalente al ramadan 8 dell’Egira.
Si narra che quando fu alla distanza di 4-5 giornate di viaggio da Medina, Muḥammad avesse mandato suo cugino e genero ʿAlī a distruggere l’idolo. Egli provvide secondo gli ordini, razziò il tesoro conservato nel santuario e lo portò al Profeta. Tra le prede vi erano due spade, donate alla divinità da al-Ḥārith ibn Abī Shamir al-Ghassānī, il governatore ghassanide di al-Shām (corrispondente alla Grande Siria). Una spada si chiamava Mikhdham (la Tagliente) e l’altra Rasūb (la Penetrante)[1]. Il Profeta donò entrambe le spade ad ʿAlī.

 

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