La sfida fra le 700  moschee: così l’Islam italiano va a   caccia di fondi – La Stampa

Faida interna per il denaro dell’8 per mille, mentre gli sceicchi del Golfo pagano per rallentare la nascita di un modello occidentale

Sorgente: La sfida fra le 700  moschee: così l’Islam italiano va a   caccia di fondi – La Stampa

Di Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo

In gran parte sono garage, negozi, ex capannoni, addirittura sottoscala o cantine. Adibite a sale di preghiera e chiamate moschee. Se ne contano oltre 700 in tutta Italia. È una stima aggiornata di volta in volta, perché un numero preciso non c’è. C’è un vuoto legislativo che non permette l’emersione di luoghi istituzionali e costringe i musulmani a pregare dove possono. Perché se ne sentono il bisogno, lo fanno comunque, anche senza minareti.

 

Preghiera del venerdì: alla Grande Moschea, a Roma Nord, nell’unica struttura riconosciuta tra le 700 come ente religioso, c’è la fila delle auto blu degli ambasciatori dei Paesi islamici. A Centocelle, periferia Sud, mentre un incaricato dell’imam raccoglie la carità tra i fedeli in uscita, un cartello sulla porta della moschea ricavata dal garage di un palazzone chiede di versare il 5 per mille all’associazione islamica che ha sede qui. Le scene, parallele, di un ordinario rituale settimanale, cristallizzano le due anime contrapposte della seconda religione in Italia per numero di fedeli: 1,6 milioni. Nella richiesta del 5 per mille, la quota dei contribuenti per il no-profit, c’è l’invito alla zakat (la carità), ma anche la necessità di colmare un altro vuoto: la mancata intesa dell’Islam con lo Stato e la conseguente impossibilità di beneficiare dell’8 per mille, riservato alle confessioni riconosciute.

 

Sui soldi e sul business delle moschee si sta combattendo una faida interna alla comunità musulmana per l’egemonia nell’Islam italiano, quella indefinita formula che ora, nel pieno dell’allarme terroristico, tutti rivendicano. Il 12 maggio la Confederazione islamica italiana, espressione della comunità marocchina benedetta da re Muhammad VI, lancerà la sua Opa formalizzando la richiesta per ottenere l’intesa con lo Stato, un agognato traguardo già fallito dall’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) e dalla Coreis, la comunità religiosa che ha in Yahya Pallavicini il suo leader. Sono questi i tre principali protagonisti di una lotta intestina animata anche dagli interessi opposti di governi musulmani che a suon di finanziamenti milionari orientano le scelte politiche e dottrinali delle associazioni e dei gruppi etnici di riferimento che si contendono il controllo dei luoghi di culto. A tenere il complicato conto delle moschee è Maria Bombardieri, ricercatrice di Padova, una delle fonti più attendibili sul tema. Ci ha provato anche l’istituto Cesnur di Massimo Introvigne, componente del Comitato per l’Islam al Viminale, che ha documentato «un grande problema di rappresentanza». Le associazioni più in vista, Ucoii, Coreis e Confederazione, affiliano la minoranza delle moschee: «La maggioranza sono autogestite da comunità nazionali, soprattutto bengalesi e turche». Paesi che non evocano generalmente pericoli di radicalizzazione: «L’Ucoii però ritiene che se otterrà l’intesa di Stato beneficerà di un effetto attrattivo su queste moschee. È il potere dei soldi».

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  • I luoghi di preghiera sono circa 700
  • Le moschee sono sei: a Segrate, Ravenna, Roma, Catania, Colle Val d’Elsa e Palermo
  • La Grande moschea di Roma, la più grande d’Europa, è l’unico ente di culto riconosciuto dallo Stato
  • In Italia vivono circa 1.613mila musulmani, il 32,2% degli stranieri
  • I musulmani italiani sono circa 150mila: 70mila italiani convertiti, 80mila stranieri naturalizzati

L’enigma moschee

Sono luoghi non ufficiali che alimentano incontrollate suggestioni. Paure che a loro volta, nell’immaginario mediatico, li trasformano in «covi di terroristi». Un automatismo smentito dalla realtà dei fatti e dalle stesse rilevazioni del Viminale: «La predicazione dell’odio – spiega Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno – avviene su Internet e in carcere». Anche perché il monitoraggio sul posto è costante, con agenti della Digos infiltrati e i servizi segreti in continuo contatto con gli imam. Certo è però che il colpo d’occhio di moschee arrangiate favorisce la percezione della paura e della scarsa sicurezza. Un magma che è prodotto da un’assenza di legislazione nazionale sui luoghi di culto, per chi non ha siglato l’intesa con lo Stato come l’Islam. Le norme restano delegate alle Regioni e ai Comuni. Si spiegano così gli infiniti dibattiti sulle destinazioni d’uso, la strada normativa tentata dalla Lombardia a guida leghista, con una legge anti-moschee dichiarata incostituzionale due mesi fa, e ora anche dal Veneto. A monte c’è però una forte impreparazione sul fenomeno. In genere l’imam è considerato alla stregua di un parroco. In realtà è colui che guida la preghiera. Tra i sunniti, senza una gerarchia e un clero, è il predicatore, ma anche una sorta di punto di riferimento scelto dalla comunità. Allo stesso modo si parla di moschea come di una parrocchia. Ma è molto di più: sui tappeti della moschea si prega, si dorme, si studia, i bambini imparano le lingue, si cerca lavoro, si fa politica, si dirimono controversie. Apparentemente tutti, istituzioni e comunità, sono concordi su quanto sia necessaria un’emersione ufficiale di questi luoghi, con edifici più belli, più visibili, che abbiano il minareto o meno si vedrà.

 

Intanto, con regolarità, arrivano al ministero dell’Interno report che parlano delle moschee a rischio radicalizzazione. Nell’elenco ci sono alcune delle più grandi, sotto osservazione soprattutto il venerdì di preghiera quando nella folla dei fedeli potrebbe esserci chiunque, anche chi è solo di passaggio. Non mancano mai quella di piazza Mercato a Napoli, viale Jenner a Milano e Centocelle. Nella periferia a Sud-Est della Capitale, tra bandiere di Lazio e Roma sopra insegne di macellerie halal, ci troviamo con Mohamed Ben Mohamed che ha appena finito la predica in arabo e in italiano. Due turni: «In uno non ci stiamo» spiega mentre fuori dal suo ufficio uomini e donne attendono udienza per un consiglio. «Noi musulmani siamo i primi a non voler restare in questi posti». È una questione di sicurezza ma non solo. «Nel 2007 dopo che arrestarono uno degli attentatori di Londra passato da qui, vennero a perquisirci. Con gli uomini dei servizi ci sentiamo di continuo. Ho i loro numeri nel cellulare». Come tutti gli imam anche Ben Mohammed sognava un luogo più dignitoso di questo garage dove si moltiplicano ogni anno i fedeli: così, qualche mese fa, tra le proteste dei residenti, ha firmato l’acquisto dell’ex mobilificio di Stefano Gaggioli, ex presidente di Sviluppo Italia. Quattro piani nella vicina piazza delle Camelie. Costo: 4 milioni. Pagati sull’unghia grazie alla donazione della Qatar Charity all’Ucoii.

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Soldi e affiliazioni

Il fondo caritativo del Qatar è una presenza costante e controversa nelle comunità islamiche europee. Il sospetto di Israele e dei servizi americani è che dietro gli aiuti umanitari si celino attività compiacenti con frange terroristiche. Gli investimenti in Italia non si fermano, nonostante il recente scandalo dei fondi non rendicontati a Bergamo finito in tribunale tra la furia dei qatarini. Ci racconta Elzir Izzedin, imam di Firenze e presidente Ucoii: «Dal Qatar sono arrivati 25 milioni di euro. Abbiamo bisogno di soldi le moschee sono costrette ad autofinanziarsi. Senza 8 per mille, i finanziamenti li accetto da chiunque. Certo, ci sono Paesi finanziatori che non gradiscono granché un Islam italiano autonomo…». C’è chi pensa però, come Introvigne del Cesnur, che l’assegnazione dell’8 per mille non garantirebbe comunque l’interruzione dei soldi dai Paesi islamici.

 

L’8 per mille è il sogno di tutti coloro che rappresentano la seconda religione in Italia. Irraggiungibile senza l’intesa con lo Stato. Secondo il governo, però, la colpa sarebbe delle stesse associazioni, incapaci di parlare con una sola voce. «E’ la solita scusa», concordano Izzedin e Pallavicini, tra loro in aspra concorrenza. Ucoii e Coreis non si amano. L’accusa nei confronti dell’Ucoii è di eccessiva vicinanza all’organizzazione politica islamista dei Fratelli musulmani. La Coreis, invece, viene spesso liquidata come espressione degli italiani convertiti, considerata poco rappresentativa dagli immigrati. Di fronte a una spaccatura insanabile, entrambi offrono la stessa soluzione: due intese separate. «Lo hanno fatto con i buddisti, con quelli di rito tibetano, e con Soka Gakkai, perché non farlo anche con noi?».

 

Il Marocco cerca l’intesa

Tra Ucoii e Coreis, si inserisce un terzo contendente: la Confederazione islamica italiana che, attraverso il controllo del Centro islamico culturale d’Italia, gestisce di fatto la Grande Moschea di Roma. Qui si sta consumando un altro conflitto. Da un lato i sauditi, che per statuto esprimono il presidente, dall’altro i marocchini che invece nominano il segretario. Da 18 anni è Abdellah Redouane: troppo tempo per una parte dei fedeli che gli contesta un’amministrazione poco trasparente e lontana dai bisogni della comunità. Va detto che la Grande Moschea è considerata una rappresentanza diplomatica, distante dall’Islam popolare, e, sin dalla sua fondazione, un luogo di relazioni di potere. Dietro Redouane c’è un piano che fa capo al governo di Rabat: evitare che i connazionali che ingrossano le fila della comunità islamica più numerosa in Italia, dopo quella albanese, si radicalizzino e tornino con cattive intenzioni in patria. I sei arresti di giovedì in Lombardia e Piemonte, quasi tutti marocchini, rafforzano la tesi del sovrano del Marocco. In cambio dell’intesa, la Confederazione offre all’Italia una sponda moderata, portatrice di un modello di Islam forgiato all’Istituto per imam di Rabat voluto da Muhammad VI per formare guide religiose, uomini, ma anche donne in grado di sradicare le false interpretazioni del Corano di Isis e Al Qaeda. L’idea è di replicare questo insegnamento anche in Italia, attraverso corsi nelle università. I marocchini insomma si accreditano come interlocutori istituzionali con il governo di Matteo Renzi che a luglio sarà in visita in Marocco, ma che dovrà anche stare attento a non scontentare i partner economici del Golfo. La Confederazione, però, si sente accerchiata. A Nord una parte della comunità marocchina aderisce all’Associazione Partecipazione e spiritualità (Psm) che assieme all’Associazione islamica delle Alpi (che a Torino controlla le moschee Taiba e Rayan), è la filiale italiana del partito Giustizia e Carità, mai riconosciuto in Marocco. Dall’altra parte ci sono i sauditi che, anche in competizione con l’Ucoii, tramite la Lega musulmana mondiale, elargiscono finanziamenti per nuove moschee senza però un vero seguito popolare. Il loro punto di forza sono gli imam spediti per le esigenze di culto durante il Ramadan: sono predicatori di Stato, dunque del wahhabismo, la corrente più tradizionalista dei sunniti.

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Il sogno dell’università

A rifiutare i soldi di Riad è stato Aboulkheir Breigheche, imam del Trentino e presidente dell’Associazione italiana degli Imam e delle Guide religiose che in una villa a San Giovanni Lupatoto, alle porte di Verona, sta costruendo la prima università islamica in Italia. «L’intento è formare imam, da inserire anche in un albo, che conoscano bene cultura, leggi e lingua italiana». Già a Lecce si era arenata un’iniziativa simile. Per Pallavicini del Coreis si tratta di «una pagliacciata» perché condizionerebbe con un’unica scuola di pensiero, legata ai Fratelli musulmani, l’intera rete di moschee italiane di fatto controllata. «Noi abbiamo detto no ai soldi di Arabia Saudita ed Emirati – risponde Breigheche – perché poi avremmo dovuto accettare orientamenti teologici ben precisi come quelli wahabiti e salafiti». Ma per l’università il denaro arriverà comunque dal Golfo: tramite l’Ucoii, dal solito Qatar.

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